giovedì 14 novembre 2024

LA PRIMA DOMANDA

Che cosa cambia tra l’essere battezzati e il non esserlo?

8. Una prima domanda, molto diretta, mira al cuore stesso del Battesimo e mette in gioco la sua stessa essenza. È una domanda che sorge spontanea, che in un certo senso si impone, quando, per ragioni diverse, ci si ritrova a parlare di questo atto divenuto tradizionale nel corso degli anni, ma ora non più scontato.

Potremmo formularla in questo modo: che cosa accade di così importante quando si viene battezzati? Perché mai si dovrebbe farlo? Alla fine, cosa cambia tra l’essere battezzati e il non esserlo?


Per la prima volta furono chiamati cristiani

9. La risposta più immediata a una simile domanda, che però rimane tutta da chiarire, potrebbe suonare così: con il Battesimo si diventa cristiani. Quel che cambia è la stessa condizione di vita. Con il Battesimo si compie la propria nascita, nella forma cristiana della vita.


10. Dobbiamo riconoscere che non si era abituati a considerare così importante l’aggettivo “cristiano”. Soltanto qualche decennio fa, nei nostri territori, l’identità cristiana non era in discussione. Da lì si partiva per fare altre considerazioni, più di approfondimento: ci si interrogava sulle verità del cristianesimo, sulle regole morali che comportava, sugli impegni che richiedeva, sulle sue forme di espressione.

Il contesto sociale profondamente cambiato, l’indebolimento di una tradizione religiosa condivisa e l’incontro più ravvicinato con altre religioni, ci hanno costretto a porre maggiormente in evidenza l’elemento che contraddistingue la nostra fede.

Oggi appare più evidente che essere cristiani significa riconoscersi in qualcosa di assolutamente originale, per nulla generico, che ci qualifica in modo molto chiaro e ci pone di fronte al mondo in una posizione singolare.


11. Il termine cristiani ha la sua storia. Fa la sua comparsa per la prima volta in una delle grandi città dell’impero di Roma. Ce ne parla il libro degli Airi degli Apostoli. Siamo a pochi anni dalla morte in croce di Gesù e dall’esperienza, insieme sconvolgente ed esaltante, delle sue apparizioni.

Nei quaranta giorni che seguirono la sua morte i discepoli ebbero modo di incontrarlo di nuovo vivo, di parlare con lui, di ascoltarlo, di condividere con lui momenti di grande familiarità.

Da lui ricevettero il compito di annunciare a tutti il Vangelo, cioè il lieto annuncio della salvezza da lui realizzata, a compimento di un disegno di grazia. Prese così avvio la missione apostolica, accompagnata e sostenuta dalla potenza dello Spirito Santo, promesso dal Risorto ed effuso nel giorno della Pentecoste.

La predicazione apostolica diede vita nel territorio giudaico a diverse comunità di credenti. Lo stesso avvenne poi nella regione della Samaria e poi ancora oltre i confini dell’antico Israele.

La Parola di Dio raggiunse le regioni vicine, che a quel tempo costituivano le province orientali dell’impero di Roma. Tra queste province vi era la Siria, con la sua capitale Antiochia. Il libro degli Atti degli Apostoli riferisce appunto che proprio in questa prestigiosa città, tra le più importanti dell’impero romano, per la prima volta i discepoli di Gesù furono chiamati cristiani (At 11,26). Siamo intorno all’anno 37 d.C.


12. Le circostanze di un simile avvenimento risultano interessanti. Il libro degli Atti ce le precisa.

Riportiamo qui un passaggio significativo della sua narrazione: «Quelli che si erano dispersi a causa della persecuzione scoppiata a motivo di Stefano erano arrivati fino alla Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non proclamavano la Parola a nessuno fuorché ai Giudei. Ma alcuni di loro, gente di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, annunciando che Gesù è il Signore. E la mano del Signore era con loro e così un grande numero credette e si convertì al Signore» (At 11,19-21).

Il punto che interessa qui evidenziare riguarda il particolare della lingua greca. Per la prima volta, in questa importante città dell’impero, l’annuncio del Vangelo viene rivolto ai Greci in greco. Non più, quindi, solo ai Giudei e neppure solo ai Giudei di lingua greca, ma agli stessi Greci nella loro propria lingua.

A loro - si riferisce - viene annunciato che «Gesù è il Signore». Il termine Signore (in greco: Kyrios) riferito a Gesù risultava particolarmente adatto a far cogliere ai Greci la portata di ciò che costituiva il cuore del Vangelo, cioè la risurrezione di Gesù: significava infatti «colui che ha potere e sovranità».

Possiamo tuttavia immaginare che si fosse presto diffusa anche la voce che Gesù era il Cristo. Lo dichiaravano quanti avevano creduto in lui e provenivano dal Giudaismo.

Il termine greco Christós traduceva l’ebraico Meshiah (Messia), con cui si identificava l’Unto del Signore, discendente da Davide e atteso per gli ultimi tempi. Si trattava di una qualifica che solo i Giudei potevano comprendere nel suo vero significato.

Per i Greci questo termine non aveva un senso preciso e fu facile scambiarlo per un nome proprio. Vennero così definiti cristiani quanti si dichiaravano seguaci di quest’uomo chiamato Cristo (Questa stessa definizione passò dai Greci ai Romani. Così scrive lo storico romano Tacito: «Prendevano essi il nome da Cristo -Christus-, che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio e quell’esecrabile superstizione, repressa per breve tempo, riprendeva ora forza non soltanto in Giudea, luogo d’origine di quel male, ma anche in Roma, ove tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da ogni parte e trovano seguaci» (Annales, XV, 44-5).

 

13. Da un simile evento - all’apparenza del tutto contingente - emerge una verità decisamente rilevante, che varrà in ogni tempo, che cioè i cristiani esistono - appunto - grazie a Cristo. La loro identità, come il loro nome, dipende in tutto e per tutto da lui.

Vi è tra lui e loro una dipendenza che potremmo definire originaria o istitutiva, in qualche modo genetica.

Gesù, il Cristo di Dio, non viene considerato dai cristiani semplicemente come un eminente personaggio a cui ispirarsi o come un insigne maestro da cui lasciarsi istruire, o un modello da imitare per quanto è possibile, e neppure, propriamente, come il fondatore di una religione.

Egli era riconosciuto come il Signore, il principio di una vita nuova (cfr. At 3,15), della quale per grazia si era divenuti partecipi. E tale grazia era resa possibile dal Battesimo, il quale originava una appartenenza inedita, che oltrepassava i confini del tempo e univa i credenti al Cristo vivente. Sin dal primo momento, infatti, il Battesimo cristiano avviene «nel nome di Gesù Cristo» (cfr. At 2,38).

14. Ma chi sono allora precisamente i cristiani? Che cosa ricevono da questa misteriosa comunione con Cristo? Che cosa li contraddistingue? Da che cosa si possono riconoscere? Quali sono dunque su di loro gli effetti del Battesimo?


venerdì 27 settembre 2024

PROLOGO

Perché parlare del Battesimo?

1. In questa lettera pastorale vorrei parlare del Battesimo. Ho deciso di farlo sulla spinta di un desiderio che è andato via via maturando in me e anche pensando al Giubileo che si celebrerà con l’avvio del prossimo anno. So bene che questa scelta potrebbe apparire piuttosto astratta, lontano dalle grandi sfide della vita di oggi.

L’argomento, poi, potrebbe risultare eccessivamente “di Chiesa”, cioè riservato a chi frequenta con particolare assiduità gli ambienti parrocchiali e magari si considera esperto in materia. Personalmente non condivido nessuna di queste due impressioni. Penso invece che il momento presente offra la possibilità di riconoscere al Battesimo cristiano tutta la sua rilevanza, considerandolo insieme come un dono e come un’opportunità.

Il mio desiderio è appunto questo: farne percepire il senso profondo, la sua ragion d’essere e il suo valore per l’oggi.


2. Sto cercando come tutti di riflettere sul momento che stiamo vivendo, di leggerlo con onestà e coraggio, ma anche con empatia e - oserei dire - con affetto. Sono convinto che una visione cristiana della vita non mortifichi l’umano ma, al contrario, lo esalti. Occorre tuttavia ricercare i luoghi del reciproco contatto, gli accessi comuni, i ponti che uniscono i territori lungo i quali si muove l’onesta ricerca del vero.

Quando ci si interroga sul senso delle cose e sulle esigenze del momento presente, la coscienza pensante e la coscienza credente si scoprono alleate. Per entrambe una domanda appare ineludibile: come guardare alla vita? Come farlo oggi? Come interpretare lo scenario attuale del mondo, con le sue formidabili trasformazioni e le sue croniche contraddizioni?

Ma, più in profondità, come rivolgersi oggi a una libertà che è divenuta ancora più gelosa di se stessa, che non fa sconti e non concede deleghe, ma rivendica il diritto di decidere senza alcuna costrizione esterna?


3. Le grandi tradizioni, anche quelle religiose, non si impongono più per la loro autorità, ma vengono sottoposte al vaglio di una sensibilità che forse ha assunto un’enfasi eccessiva, ma che in ogni caso rivendica il diritto dell’ultima parola.

Criterio di valutazione è divenuto ciò che si prova, quel sentire individuale che facilmente viene a identificarsi con l’emozione del momento o con l’appagamento istintivo di un bisogno.

 Si tratta di due derive spiacevoli che tuttavia non compromettono una verità essenziale: il “sentire” è parte integrante dell’esperienza umana ed è espressione di una istanza insopprimibile, la cui sorgente è l’apertura originaria dell’uomo alla verità. La vita stessa pungola e inquieta.

Il cuore e la mente non si rassegnano a uno spessore minimale dell’esistenza. Reagiscono e ci dicono: «Non è dignitoso lasciarsi vivere! Non basta avere il pane e il vestito, la casa e il lavoro, e neppure stare al passo con una tecnologia ammaliante.

C’è una dignità da onorare con la riflessione e la decisione, con il pensiero e la volontà, con l’irresistibile senso di responsabilità».


4. È in questa prospettiva che vorrei parlare del Battesimo.

Sono convinto che, considerandolo nell’ottica che gli si addice, il Battesimo cristiano abbia qualcosa da dire - anzi da offrire - a chiunque si interroghi con onestà, oggi come ieri, sulla vita e sulla morte, sul bene e sul male, sul dolore e sull’amore, sulla felicità e sulla tristezza, sulla giustizia e sull’ingiustizia, sulla paura e sul coraggio, sull’angoscia e sulla speranza. La verità del Battesimo abbraccia infatti l’intero vissuto umano.


5. Mi preme fare subito una considerazione. Il Battesimo si presenta come un gesto molto semplice. Ha l’aspetto di una breve cerimonia e spesso è intesa così. In realtà è un rito liturgico il cui profondo significato - come meglio si dirà alla fine di questa lettera pastorale - si intuisce dai gesti che si compiono e dai segni che intervengono a costituirlo. Questi segni e questi gesti, nella loro solenne ma sobria espressività, realizzano ciò che significano, ovverossia quella realtà che oltrepassa i confini del visibile e chiama in causa il mistero di Dio.

In questo senso parliamo del Battesimo come di un sacramento. Quanto cercherò di dire nelle pagine che seguono vorrei aiutasse a entrare in questo peculiare segreto che il Battesimo custodisce.


6. Al riguardo alcune domande sorgono oggi spontanee. Le potrebbe porre chi è piuttosto distante dalla Chiesa o professa un’altra religione, ma anche chi si considera a pieno titolo cristiano cattolico.

C’è un’esigenza di chiarezza e consapevolezza che accomuna tutti. Vorrei allora provare ad affrontarle, cercando di condividere il mio personale convincimento che il Battesimo cristiano sia una benedizione per chi lo riceve.


7. Saranno le stesse domande a conferire alla mia riflessione la sua struttura: fungeranno da titoli ai capitoli di questa lettera. L’auspicio è che quanto si dirà non appaia teorico e astratto, ma risulti ancorato alla vita. Parlare del Battesimo significa infatti parlare di ciò che ci riguarda nel profondo.



Salmo 1

La beatitudine del giusto

 

1Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,

non resta nella via dei peccatori

e non siede in compagnia degli arroganti,

 

2ma nella legge del Signore trova la sua gioia,

la sua legge medita giorno e notte.

 

3È come albero piantato lungo corsi d’acqua,

che dà frutto a suo tempo:

le sue foglie non appassiscono

e tutto quello che fa, riesce bene.

 

4Non così, non così i malvagi,

ma come pula che il vento disperde;

 

5perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio

né i peccatori nell’assemblea dei giusti,

 

6poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,

mentre la via dei malvagi va in rovina.




mercoledì 24 gennaio 2024

S. Francesco di Sales - Filotea - Introduzione alla Vita devota

Descrizione della vera Devozione

Mia cara Filotea, tu vorresti giungere alla devozione perché sai bene, come cristiana, quanto questa virtù sia accetta a Dio: ma, siccome i piccoli errori commessi all’inizio di qualsiasi impresa, ingigantiscono con il tempo e risultano, alla fine, irreparabili o quasi, è necessario, prima di tutto, che tu sappia che cos’è la virtù della devozione. Di vera ce n’è una sola, ma di false e vane ce ne sono tante; e se non sai distinguere la vera, puoi cadere in errore e perdere tempo correndo dietro a qualche devozione assurda e superstiziosa.

Arelio dava a tutti i volti che dipingeva le sembianze e l’espressione delle donne che amava; ognuno si crea la devozione secondo le proprie tendenze e la propria immaginazione. Chi si consacra al digiuno, penserà di essere devoto perché non mangia, mentre ha il cuore pieno di rancore; e mentre non se la sente di bagnare la lingua nel vino e neppure nell’acqua, per amore della sobrietà, non avrà alcuno scrupolo nel tuffarla nel sangue del prossimo con la maldicenza e la calunnia.

Un altro penserà di essere devoto perché biascica tutto il giorno una filza interminabile di preghiere; e non darà peso alle parole cattive, arroganti e ingiuriose che la sua lingua rifilerà, per il resto della giornata, a domestici e vicini.

Qualche altro metterà mano volentieri al portafoglio per fare l’elemosina ai poveri, ma non riuscirà a cavare un briciolo di dolcezza dal cuore per perdonare i nemici; ci sarà poi l’altro che perdonerà i nemici, ma di pagare i debiti non gli passerà neanche per la testa; ci vorrà il tribunale.

Tutta questa brava gente, dall’opinione comune è considerata devota, ma non lo è per niente.

Ricordi l’episodio degli sgherri di Saul che cercano Davide? Micol li trae in inganno mettendo nel letto un fantoccio con gli abiti di Davide, e fa loro credere che Davide è ammalato. Così molti si coprono di alcune azioni esteriori, proprie della santa devozione e la gente crede che si tratti di persone veramente devote e spirituali; ma se vai a guardar bene, scopri che sono soltanto fantocci e fantasmi di devozione.

La vera e viva devozione, Filotea, esige l’amore di Dio, anzi non è altro che un vero amore di Dio; non un amore genericamente inteso.

Infatti l’amore di Dio si chiama grazia in quanto abbellisce l’anima, perché ci rende accetti alla divina Maestà; si chiama carità, in quanto ci dà la forza di agire bene; quando poi è giunto ad un tale livello di perfezione, per cui, non soltanto ci dà la forza di agire bene, ma ci spinge ad operare con cura, spesso e con prontezza, allora si chiama devozione. Gli struzzi non possono volare, le galline svolazzano di rado, goffamente e rasoterra; le aquile, le rondini e i colombi volano spesso, con eleganza e in alto.

Similmente i peccatori non riescono a volare verso Dio, ma si spostano esclusivamente sulla terra e per la terra; le persone dabbene, che non possiedono ancora la devozione, volano verso Dio per mezzo delle buone azioni, ma di rado, con lentezza e pesantemente; le persone devote volano in Dio con frequenza, prontezza e salgono in alto.

A dirlo in breve, la devozione è una sorta di agilità e vivacità spirituale per mezzo della quale la carità agisce in noi o, se vogliamo, noi agiamo per mezzo suo, con prontezza e affetto.

Ora, com’è compito della carità farci praticare tutti i Comandamenti di Dio senza eccezioni e nella loro totalità, spetta alla devozione aggiungervi la prontezza e la diligenza. Ecco perché chi non osserva tutti i Comandamenti di Dio non può essere giudicato né buono né devoto. Per essere buoni ci vuole la carità e per essere devoti, oltre alla carità, bisogna avere grande vivacità e prontezza nel compiere gli atti.

Siccome la devozione si trova in grado di carità eccellente, non soltanto ci rende pronti, attivi e diligenti nell’osservare tutti i Comandamenti di Dio; ma ci spinge inoltre a fare con prontezza e affetto tutte le buone opere che ci sono possibili, anche se non cadono sotto il precetto, ma sono soltanto consigliate o indicate.

Come un uomo guarito di recente da una malattia, cammina quel tanto che gli è necessario, piano piano e trascinandosi un po’, così il peccatore, guarito dal suo peccato, cammina quel tanto che Dio gli comanda, trascinandosi adagio adagio fino a che non giunga alla devozione. Allora, da uomo completamente sano, non soltanto cammina, ma corre e salta nella via dei Comandamenti di Dio e, inoltre, prende di corsa i sentieri dei consigli e delle ispirazioni celesti.

In conclusione, si può dire che la carità e la devozione differiscono tra loro come il fuoco dalla fiamma; la carità è un fuoco spirituale, che quando brucia con una forte fiamma si chiama devozione: la devozione aggiunge al fuoco della carità solo la fiamma che rende la carità pronta, attiva e diligente, non soltanto nell’osservanza dei Comandamenti di Dio, ma anche nell’esercizio dei consigli e delle ispirazioni del cielo.


https://www.monasterovirtuale.it/francesco-di-sales/la-filotea-parte-i.html


https://www.iubilaeum2025.va/it/notizie/comunicati/2023/papa-anno-preghiera.html

giovedì 30 novembre 2023

La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente.

La chiamata all’apostolato (Mt 9,9-13)

 

Papa Francesco - Udienza generale - Aula Paolo VI - Mercoledì, 11 gennaio 2023

 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

 

Iniziamo oggi un nuovo ciclo di catechesi, dedicato a un tema urgente e decisivo per la vita cristiana: la passione per l’evangelizzazione, cioè lo zelo apostolico. Si tratta di una dimensione vitale per la Chiesa: la comunità dei discepoli di Gesù nasce infatti apostolica, nasce missionaria, non proselitista e dall’inizio dovevamo distinguere questo: essere missionario, essere apostolico, evangelizzare non è lo stesso di fare proselitismo, niente a che vedere una cosa con l’altra.

 

Si tratta di una dimensione vitale per la Chiesa, la comunità dei discepoli di Gesù nasce apostolica e missionaria. Lo Spirito Santo la plasma in uscita - la Chiesa in uscita, che esce -, perché non sia ripiegata su sé stessa, ma estroversa, testimone contagiosa di Gesù, la fede si contagia, pure -, protesa a irradiare la sua luce fino agli estremi confini della terra.

 

Può succedere, però, che l’ardore apostolico, il desiderio di raggiungere gli altri con il buon annuncio del Vangelo, diminuisca, divenga tiepido. A volte sembra eclissarsi, sono cristiani chiusi, non pensano agli altri. Ma quando la vita cristiana perde di vista l’orizzonte dell’evangelizzazione, l’orizzonte dell’annuncio, si ammala: si chiude in sé stessa, diventa autoreferenziale, si atrofizza. Senza zelo apostolico, la fede appassisce.

 

La missione è invece l’ossigeno della vita cristiana: la tonifica e la purifica. Intraprendiamo allora un percorso alla riscoperta della passione evangelizzatrice, iniziando dalle Scritture e dall’insegnamento della Chiesa, per attingere alle fonti lo zelo apostolico. Poi ci accosteremo ad alcune sorgenti vive, ad alcuni testimoni che hanno riacceso nella Chiesa la passione per il Vangelo, perché ci aiutino a ravvivare il fuoco che lo Spirito Santo vuole far ardere sempre in noi.

 

E oggi vorrei iniziare da un episodio evangelico in qualche modo emblematico lo abbiamo sentito: la chiamata dell’apostolo Matteo, e lui stesso la racconta nel suo Vangelo, nel brano che abbiamo ascoltato (cfr. 9,9-13).

 

Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

 

Tutto inizia da Gesù, il quale “vede” – dice il testo – «un uomo». In pochi vedevano Matteo così com’era: lo conoscevano come colui che stava «seduto al banco delle imposte» (v. 9). Era infatti esattore delle tasse: uno, cioè, che riscuoteva i tributi per conto dell’impero romano che occupava la Palestina. In altre parole, era un collaborazionista, un traditore del popolo.

 

Possiamo immaginare il disprezzo che la gente provava per lui: era un “pubblicano”, così si chiamava. Ma, agli occhi di Gesù, Matteo è un uomo, con le sue miserie e la sua grandezza. State attenti a questo: Gesù non si ferma agli aggettivi, Gesù sempre cerca il sostantivo. “Questo è un peccatore, questo è un tale per quale…” sono degli aggettivi: Gesù va alla persona, al cuore, questa è una persona, questo è un uomo, questa è una donna, Gesù va alla sostanza, al sostantivo, mai all’aggettivo, lascia perdere gli aggettivi.

 

E mentre tra Matteo e la sua gente c’è distanza - perché loro vedevano l’aggettivo, “pubblicano” - , Gesù si avvicina a lui, perché ogni uomo è amato da Dio; “Anche questo disgraziato?”. Sì, anche questo disgraziato, anzi Lui è venuto per questo disgraziato, lo dice il Vangelo: “Io sono venuto per i peccatori, non per i giusti”. Questo sguardo di Gesù che è bellissimo, che vede l’altro, chiunque sia, come destinatario di amore, è l’inizio della passione evangelizzatrice. Tutto parte da questo sguardo, che impariamo da Gesù.

 

Possiamo chiederci: com’è il nostro sguardo verso gli altri? Quante volte ne vediamo i difetti e non le necessità; quante volte etichettiamo le persone per ciò che fanno o ciò che pensano! Anche come cristiani ci diciamo: è dei nostri o non è dei nostri? Questo non è lo sguardo di Gesù: Lui guarda sempre ciascuno con misericordia anzi con predilezione.

 

E i cristiani sono chiamati a fare come Cristo, guardando come Lui specialmente i cosiddetti “lontani”. Infatti, il racconto della chiamata di Matteo si conclude con Gesù che dice: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (v. 13). E se ognuno di noi si sente giusto, Gesù è lontano, Lui si avvicina ai nostri limiti e alle nostre miserie, per guarirci.

 

Dunque, tutto inizia dallo sguardo di Gesù “Vide un uomo”, Matteo. A questo segue – secondo passaggio – un movimento. Prima lo sguardo, Gesù vide, poi il secondo passaggio, il movimento. Matteo era seduto al banco delle imposte; Gesù gli disse: «Seguimi». Ed egli «si alzò e lo seguì» (v. 9). Notiamo che il testo sottolinea che “si alzò”.

 

Perché è tanto importante questo dettaglio? Perché a quei tempi chi era seduto aveva autorità sugli altri, che stavano in piedi davanti a lui per ascoltarlo o, come in quel caso, per pagare il tributo. Chi stava seduto, insomma, aveva potere. La prima cosa che fa Gesù è staccare Matteo dal potere: dallo stare seduto a ricevere gli altri lo pone in movimento verso gli altri, non riceve, no: va agli altri; gli fa lasciare una posizione di supremazia per metterlo alla pari con i fratelli e aprirgli gli orizzonti del servizio.

 

Questo fa e questo è fondamentale per i cristiani: noi discepoli di Gesù, noi Chiesa, stiamo seduti aspettando che la gente venga o sappiamo alzarci, metterci in cammino con gli altri, cercare gli altri? È una posizione non cristiana dire: “Ma che vengano, io sono qui, che vengano.” No, vai tu a cercarli, fai tu il primo passo.

 

Uno sguardo - Gesù vide -, un movimento - si alza - e terzo, una meta. Dopo essersi alzato e aver seguito Gesù, dove andrà Matteo? Potremmo immaginare che, cambiata la vita di quell’uomo, il Maestro lo conduca verso nuovi incontri, nuove esperienze spirituali. No, o almeno non subito.

 

Per prima cosa Gesù va a casa sua; lì Matteo gli prepara «un grande banchetto», a cui «partecipa una folla numerosa di pubblicani» (Lc 5,29) cioè gente come lui. Matteo torna nel suo ambiente, ma ci torna cambiato e con Gesù. Il suo zelo apostolico non comincia in un luogo nuovo, puro, un luogo ideale, lontano, ma lì, comincia dove vive, con la gente che conosce. Ecco il messaggio per noi: non dobbiamo attendere di essere perfetti e di aver fatto un lungo cammino dietro a Gesù per testimoniarlo; il nostro annuncio comincia oggi, lì dove viviamo.

 

E non comincia cercando di convincere gli altri, convincere no: ma testimoniando ogni giorno la bellezza dell’Amore che ci ha guardati e ci ha rialzati e sarà questa bellezza, comunicare questa bellezza a convincere la gente, non comunicare noi, ma lo stesso Signore. Noi siamo quelli che annunciano il Signore, non annunciamo noi stessi, né annunciamo un partito politico, una ideologia, no: annunciamo Gesù.

 

Bisogna mettere in contatto Gesù con la gente, senza convincerli, ma lasciare che il Signore convinca. Come infatti ci ha insegnato Papa Benedetto, «la Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per attrazione» (Omelia nella Messa inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007).

 

Non dimenticare questo: quando voi vedrete dei cristiani che fanno proselitismo, che ti fanno una lista di gente per venire… questi non sono cristiani, sono pagani travestiti da cristiani ma il cuore è pagano. La Chiesa cresce non per proselitismo, cresce per attrazione.

 

Una volta ricordo che in ospedale a Buenos Aires sono andate via le suore che lavoravano lì perché erano poche e non potevano portare avanti l’ospedale ed è venuta una comunità di suore dalla Corea e sono arrivate, pensiamo lunedì per esempio, non ricordo il giorno. Hanno preso possesso della casa delle suore dell’ospedale e il martedì sono scese a visitare gli ammalati dell’ospedale, ma non parlavano una parola di spagnolo, soltanto parlavano il coreano e gli ammalati erano felici, perché commentavano: “Brave queste suore, brave, brave” - Ma cosa ti ha detto la suora? “Niente, ma con lo sguardo mi ha parlato, hanno comunicato Gesù”. Non comunicare se stessi, ma con lo sguardo, con i gesti, comunicare Gesù. Questa è l’attrazione, il contrario del proselitismo.

 

Questa testimonianza attraente, questa testimonianza gioiosa è la meta a cui ci porta Gesù con il suo sguardo di amore e con il movimento di uscita che il suo Spirito suscita nel cuore. E noi possiamo pensare se il nostro sguardo assomiglia a quello di Gesù per attrarre la gente, per avvicinare alla Chiesa. Pensiamo questo.

giovedì 26 gennaio 2023

Il mistero della preghiera

 

Il mistero della preghiera 

Papa Francesco - Udienza generale - Aula Paolo VI - Mercoledì, 6 maggio 2020

Dal vangelo secondo Marco. (Mc 10,46-52)

E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va', la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi iniziamo un nuovo ciclo di catechesi sul tema della preghiera. La preghiera è il respiro della fede, è la sua espressione più propria. Come un grido che esce dal cuore di chi crede e si affida a Dio.

Pensiamo alla storia di Bartimeo, un personaggio del Vangelo (cfr. Mc 10,46-52 e par.) e, vi confesso, per me il più simpatico di tutti. Era cieco, stava seduto a mendicare sul bordo della strada alla periferia della sua città, Gerico. Non è un personaggio anonimo, ha un volto, un nome: Bartimeo, cioè “figlio di Timeo”. Un giorno sente dire che Gesù sarebbe passato di là. In effetti, Gerico era un crocevia di gente, continuamente attraversata da pellegrini e mercanti. Allora Bartimeo si apposta: avrebbe fatto tutto il possibile per incontrare Gesù. Tanta gente faceva lo stesso: ricordiamo Zaccheo, che salì sull’albero. Tanti volevano vedere Gesù, anche lui.

Così quest’uomo entra nei Vangeli come una voce che grida a squarciagola. Lui non ci vede; non sa se Gesù sia vicino o lontano, ma lo sente, lo capisce dalla folla, che a un certo punto aumenta e si avvicina… Ma lui è completamente solo, e nessuno se ne preoccupa.

E Bartimeo cosa fa? Grida. E grida, e continua a gridare. Usa l’unica arma in suo possesso: la voce. Comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (v. 47). E così continua, gridando.

Le sue urla ripetute danno fastidio, non sembrano educate, e molti lo rimproverano, gli dicono di tacere: “Ma sii educato, non fare così!”. Ma Bartimeo non tace, anzi, grida ancora più forte: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (v. 47).

Quella testardaggine tanto bella di coloro che cercano una grazia e bussano, bussano alla porta del cuore di Dio. Lui grida, bussa. Quella espressione: “Figlio di Davide”, è molto importante; vuol dire “il Messia” - confessa il Messia -, è una professione di fede che esce dalla bocca di quell’uomo disprezzato da tutti.

E Gesù ascolta il suo grido. La preghiera di Bartimeo tocca il suo cuore, il cuore di Dio, e si aprono per lui le porte della salvezza.

Gesù lo fa chiamare. Lui balza in piedi e quelli che prima gli dicevano di tacere, ora lo conducono dal Maestro. Gesù gli parla, gli chiede di esprimere il suo desiderio - questo è importante - e allora il grido diventa domanda: “Che io veda di nuovo, Signore!” (cfr. v. 51).

Gesù gli dice: «Va’, la tua fede ti ha salvato» (v. 52). Riconosce a quell’uomo povero, inerme, disprezzato, tutta la potenza della sua fede, che attira la misericordia e la potenza di Dio. La fede è avere due mani alzate, una voce che grida per implorare il dono della salvezza.

Il Catechismo afferma che «l’umiltà è il fondamento della preghiera» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2559). La preghiera nasce dalla terra, dall’humus - da cui deriva “umile”, “umiltà” -; viene dal nostro stato di precarietà, dalla nostra continua sete di Dio (cfr. ibid., 2560-2561).

La fede, lo abbiamo visto in Bartimeo, è grido; la non-fede è soffocare quel grido. Quell’atteggiamento che aveva la gente, nel farlo tacere: non era gente di fede, lui invece sì. Soffocare quel grido è una specie di “omertà”.

La fede è protesta contro una condizione penosa di cui non capiamo il motivo; la non-fede è limitarsi a subire una situazione a cui ci siamo adattati. La fede è speranza di essere salvati; la non-fede è abituarsi al male che ci opprime e continuare così.

Cari fratelli e sorelle, cominciamo questa serie di catechesi con il grido di Bartimeo, perché forse in una figura come la sua c’è già scritto tutto. Bartimeo è un uomo perseverante. Intorno a lui c’era gente che spiegava che implorare era inutile, che era un vociare senza risposta, che era chiasso che disturbava e basta, che per favore smettesse di gridare: ma lui non è rimasto in silenzio. E alla fine ha ottenuto quello che voleva.

Più forte di qualsiasi argomentazione contraria, nel cuore dell’uomo c’è una voce che invoca. Tutti abbiamo questa voce, dentro. Una voce che esce spontanea, senza che nessuno la comandi, una voce che s’interroga sul senso del nostro cammino quaggiù, soprattutto quando ci troviamo nel buio: “Gesù, abbi pietà di me! Gesù, abbi pietà di me!”. Bella preghiera, questa.

Ma forse, queste parole, non sono scolpite nell’intero creato? Tutto invoca e supplica perché il mistero della misericordia trovi il suo compimento definitivo. Non pregano solo i cristiani: essi condividono il grido della preghiera con tutti gli uomini e le donne.

Ma l’orizzonte può essere ancora allargato: Paolo afferma che l’intera creazione «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Gli artisti si fanno spesso interpreti di questo grido silenzioso del creato, che preme in ogni creatura ed emerge soprattutto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è un “mendicante di Dio” (cfr CCC, 2559). Bella definizione dell’uomo: “mendicante di Dio”. Grazie.